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Viaggio ai confini del cuore

Accompagniamo il viaggio di p. Antonio Perretta in visita agli istituti di pena del Mozambico, dove la sofferenza di chi ci vive va molto al di là del necessario

Lo scorso novembre mi è arrivata la nomina ufficiale come direttore della Commissione episcopale nazionale di pastorale carceraria da parte della Conferenza episcopale del Mo­zambico. Una responsabilità davanti a Dio, alla Chiesa locale e davanti ai poveri, specialmente i fratelli e le sorelle privati di libertà, i carcerati. Missione che, subito, nella mente e nel cuore mi ha acceso un fascio di luce trepidante sull’im­menso lavoro pastorale che questo comporta.

Come diceva San Giovanni Paolo II, nell’introduzione dell’Enciclica La missione del Redentore, negli anni Novanta: “al termine del secondo millennio, tale missione è ancora agli inizi”. Come non sentire la forza autentica di queste parole in Mozambico, nella giovinezza e fragilità di una chiesa locale e di un processo di evangelizzazione che, pur avendo celebrato i 500 anni dal suo inizio, affronta ancora tante sfide: mancanza di un sufficiente personale missionario locale, necessità di aiuti materiali per l’evangelizzazione e promozione umana, urgenza di edificazione di luoghi di culto, ristrutturazione di chiese e oratori precari o fatiscenti…  

In questo contesto ecclesiale, possiamo immaginare quale sia la sfida della missione che spetta alla Pastorale Carceraria mozambicana. 

Nelle carceri del Mozambico si trovano attualmente oltre 60.000 detenuti, una sovrappopolazione che mina la sicurezza sociale e il rispetto dei diritti umani, nonché la reale “correzione” degli atteggiamenti antilegali che hanno prodotto un tale fenomeno. 

Del resto, le carceri sono il riverbero della situazione sociale e culturale, la triste fotografia della mancanza di opportunità per tante persone, della scarsa e difficile scolarizzazione, della povertà diffusa, della durezza della vita quotidiana, nonostante la grande ricchezza naturale di cui dispone il paese! 

 

La fascia interessata da questo fenomeno è soprattutto quella adolescenziale e giovanile, a fortissima prevalenza maschile, con comportamenti sociali aggressivi. 

Un flash esperienziale per delineare meglio la situazione:

Francisco è un giovane di 23 anni che vive rapporti tesi con la sua famiglia. Un giorno suo cugino gli prende il caricatore per il telefonino senza chiedergli il permesso. Francisco non gradisce il fatto e i due cominciano a litigare. Il tono della discussione aumenta e il ragazzo ferisce il cugino con una bottiglia di vetro, finendo in carcere per 6 mesi.  

Questo triste episodio ha alle spalle mancanza di lavoro e povertà familiare, che inasprisce anche un banale episodio di controversia. Quando scaviamo dietro la storia di Francisco, troviamo il consumo di alcool e stupefacenti fin dall’età adolescenziale, Scavando nella storia di Francisco, troviamo consumo di alcool e stupefacenti fin da adolescente, assieme alla mancanza di accompagnamento effettivo da parte della famiglia.  

Il primo ‘viaggio apostolico’ 

Subito dopo la mia nomina ho vissuto, con un laico attivo nella pastorale carceraria della Diocesi di Maputo, il primo viaggio alla scoperta della situazione delle carceri in altre provincie del Mozambico, al fine di avviare un processo di incontro con la realtà effettiva e con i collaboratori esistenti.  

In tre giorni abbiamo percorso 1.300 km, visitando due carceri. In una delle due strutture, la parola mi si è spenta sulle labbra e il cuore ha traboccato di sofferenza quando abbiamo varcato la porta di ingresso. Un carcere costruito in epoca coloniale, circa 60 anni fa, previsto per 50 persone, ne ospita attualmente 560 di varie età.  

I detenuti ci attendono nel patio in uno spazio che non basta per tutti, accalcati come sardine e pronti a accogliere gli “ospiti” con l’interesse di chi spera in qualche buona notizia. I carcerati grondano di sudore e l’aria è nauseabonda.   

Ho preso la parola con voce tremante di emozione, ma con la chiara consapevolezza che Dio vuole parlare a quei fratelli, dare loro speranza, forza, illuminare una strada nel buio del loro tunnel.

Non ci sono parole per descrivere quello che ho visto nelle celle. “Padre prega per noi, vedi come siamo messi. Qui non si respira”. Quelle parole mi hanno ferito l’anima e mi fanno ancora sentire l’impotenza nell’offrire sollievo a questi fratelli. Mi sono detto che, se anche una persona sbaglia, il prezzo è la mancanza di libertà prevista dalla permanenza in un carcere. Ma ciò che ho visto è una sofferenza che va molto al di là del necessario e del lecito e prepara cittadini che escono dal carcere disumanizzati e non riabilitati.  

Nel secondo carcere, distante 300 km, ho incon­trato una realtà differente: un carcere con circa 600 persone, in mezzo alla foresta. Abbiamo avuto la possibilità di incontrare pochi carcerati, nonostante il grande numero di prigionieri. Forse erano impreparati a ricevere la visita dei rappresentanti della Chiesa, forse avevano capito male … non si sa! Eppure, ho percepito quanto bisogno c’è di essere presenza, dare speranza, essere voce di Cristo che chiama a libertà.

Al rientro da questo viaggio quello che rimane è la sensazione della vastità della missione di questa Pastorale e dei pochi mezzi che si hanno a disposizione. Ma, con Cristo, dobbiamo fare come Pietro, uscire in alto mare e prendere il largo, in obbedienza alla Sua Parola di Salvezza.  

Eccomi, manda me, manda noi!

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