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Donne, l’insospettabile creatività dei margini

In occasione della ricorrenza dell’8 marzo, vogliamo riflettere sulla figura della donna con un filo narrativo che dalla Bibbia arriva alle periferie del mondo odierno

Affrontare il tema donna all’interno di contesti socioculturali come quelli dei Paesi impoveriti richiede il superamento di confini plurimi. Ci dobbiamo spostare non soltanto nella prospettiva della periferia, ma in quella della periferia estrema o, meglio, nella prospettiva di periferie e marginalità concentriche che si innescano e si richiamano a vicenda. Ci vuole una certa dose di fantasia per immaginare ciò che, di fatto, risulta ai più invisibile.
Provo a farlo con voi a partire da un approccio narrativo, ovvero raccontandovi una storia tratta dalla Bibbia. Pur situandosi in un contesto temporale molto lontano da noi, questo racconto ha il pregio di mostrarci alcuni aspetti paradigmatici che ci saranno d’aiuto.

Il generale dell’esercito del re di Siria

Naaman il Siro (2 Re 5, 1-14) è un uomo autorevole e ricco che ha però la sventura di ammalarsi di lebbra. Per essere guarito si rivolge a un profeta e, seppur con qualche resistenza, obbedisce ai suoi ordini ritrovandosi, di colpo, purificato. Questa è, in modo sintetico, la trama della storia vista dalla prospettiva del protagonista.
C’è però un dettaglio, racchiuso nello spazio di due versetti, che ci invita a cambiare prospettiva aprendo una finestra su quelle periferie concentriche di cui accennavo all’inizio. È la presentazione di una comparsa femminile, talmente marginale che bastano pochissime parole per tratteggiarne la figura.

Ora bande aramee avevano condotto via prigioniera dalla terra d’Israele una ragazza, che era finita al servizio della moglie di Naamàn. 3Lei disse alla padrona: “Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria, certo lo libererebbe dalla sua lebbra”.

Una ragazza di cui non si sa nulla, se non che è stata rapita da una banda di predoni, che è stata fatta schiava e che si trova a servizio proprio in casa di Naaman. Senza nome, senza identità, presa come se fosse un oggetto di proprietà, strappata dalla famiglia per essere portata come schiava tutto fare in casa d’altri.

Vedete le periferie che si sommano e si intrecciano? Questa ragazza è piccola, donna, straniera e schiava. Un’alchimia terribilmente pericolosa per la sua vita, che la rende invisibile e sottomessa. Anche se, come vedremo, il suo è un ruolo fondamentale.

Eppure, in questa storia di sottomissione apparentemente senza via di uscita c’è un dettaglio a mio avviso sconvolgente. Proprio questa ragazza, questa schiava senza nome, diventa essenziale per Nataan: è lei, infatti, che suggerisce cosa fare, a quale profeta rivolgersi per ottenere la guarigione. Non è incredibile? Una schiava che, invece di maledire il suo padrone o per lo meno di lasciarlo al suo destino, si lascia toccare dalla sua sofferenza al punto da suggerire la cura necessaria ed efficace. E nel farlo assume su di sé le conseguenze e i rischi connessi: potete immaginare cosa sarebbe potuto succederle nel caso in cui il profeta non fosse stato in grado di guarire Nataan…

Anche questo tratto mi sembra paradigmatico e tipico di tante donne incontrate in tutti i Paesi che ho potuto visitare in questi anni di servizio allo sviluppo umano integrale. La straordinaria e misteriosa capacità di utilizzare il poco potere a loro disposizione per custodire, proteggere e generare vita attorno a sé. Per i propri figli e per i figli altrui, per il villaggio, per la comunità, per il popolo.
Se esiste una tipicità del potere declinato al femminile, credo sia proprio questa: quella di orientarlo non all’eliminazione e all’asservimento dell’altro, ma alla generazione creativa della vita.

Fatime e le altre

Negli anni vissuti in Costa d’Avorio sono stati innumerevoli gli incontri con ragazze come quella del racconto biblico. Penso a Fatime, nata in un villaggio molto umile, a 10 anni viene spedita dalla famiglia nella grande città di Abidjan per cercare lavoro come domestica. Lì si chiamano “bonnes”, che vuol dire buone, ma che nasconde una verità molto più complessa e brutale: quelle come Fatime sono buone per fare qualunque cosa si chieda loro, soprattutto quello che nessun altro sarebbe disposto a fare. Normalmente vengono reclutate quando sono piccole perché si adattano più facilmente e obbediscono senza lamentarsi. Fatime ha avuto la fortuna di intercettare una mamma della nostra parrocchia che l’ha presa in casa con sé trattandola come una figlia. Ho avuto il tempo di incontrarla un paio di volte prima che scomparisse nel nulla. Dopo qualche settimana, una parente è venuta a cercarla e a portarla da qualche altra parte, dove potesse lavorare ed essere retribuita come domestica. Nessuno le ha tolto il suo destino di schiava.

In Perù mi è rimasta impressa nella memoria l’immagine di un murales realizzato nella periferia desertica di Lima: raffigura una donna del popolo che porta sulle spalle, in una posa caratteristica delle mamme di quel contesto, non un bambino, ma l’intero popolo che affolla quelle colline di sabbia e miseria. E ho avuto l’opportunità di conoscerla questa donna, una signora di mezz’età, che ha unito alla sua storia di dolore e di privazioni un grande coraggio e la volontà tenace di migliorare le condizioni di vita del quartiere in cui vive con la sua famiglia. Ha sfidato la povertà e la mentalità di chi la vorrebbe chiusa in casa ad accudire i suoi figli e nel giro di pochi anni ha realizzato una cucina popolare, una biblioteca e un asilo di quartiere e sta attualmente smuovendo mari e monti per costruire un’aula dedicata all’istruzione degli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola. Proprio come lei.

Credo che il nostro lavoro come missionari, a fianco delle donne, sia proprio quello di intercettare, proteggere e valorizzare questo enorme potenziale e permetterne la fioritura. Non soltanto perché siano finalmente riconosciuti alle donne pari dignità e diritti, ma perché il nostro mondo ha urgentemente bisogno di recuperare una dimensione femminile che parli a tutti di cooperazione, di cura, di obbedienza alla vita, prima che alle idee e agli interessi dei singoli e delle fazioni.

I progetti e i programmi di sviluppo che da anni stiamo realizzando in Africa e in America Latina si ispirano tutti a questa visione di fondo: che promuovano cure mediche, alfabetizzazione o istruzione superiore, che facilitino l’inclusione socio-economica o formino alla tutela dei diritti, essi partono e si nutrono dalla tenace convinzione che l’empowerment femminile è un passo necessario, urgente e possibile per la costruzione di uno sviluppo autenticamente umano e comunitariamente sostenibile. Dove fiorisce o rifiorisce una donna, sarà l’intero villaggio a nutrirsi dell’abbondanza dei suoi frutti.

Annamaria Amarante

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